Si e’ concluso il processo che vedeva 10 affiliati del Calan Di Cosola imputati e ora condannati in via definitiva per i delitti di “associazione di tipo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, coercizione elettorale in concorso”.
Oltre sessanta anni di reclusione, così ha deciso la Corte di Cassazione, che dichiarando inammissibile il ricorso presentato dagli imputati, ha reso definitiva la sentenza di condanna emessa dalla Corte di appello di Bari il 23 settembre del 2019.
Il processo era partito a seguito di un’inchiesta ( denominata “Attila” a cui, successivamente se ne è aggiunta un’ulteriore denominata “Attila 2”) condotta dai Carabinieri del Nucleo investigativo di Bari, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia del Capoluogo Pugliese tra il 2015 e il 2016, nei confronti del clan Di Cosola, quale compagine mafiosa tuttora attiva e predominante sul territorio barese e Provincia. Dalle indagini è emerso che il predetto Clan aveva fortemente condizionato le Consultazioni Regionali del 2015 sulla base di un meccanismo saldamente strutturato, un pactum illecito che prevedeva il pagamento di una somma pari a 50 euro per ogni preferenza procurata dalla consorteria in favore del candidato. Non solo, dalle stesse è emerso, altresì, il ricorso alla forza di intimidazione da parte degli associati nei confronti degli elettori, i quali a fronte della promessa di 20 euro per ogni voto accordato al politico venivano minacciati di ritorsione in caso di non adempienza .
Una pronuncia questa che, se da un lato, rappresenta un ulteriore passo avanti della nostra società, in generale, e della nostra giustizia in particolare poiché siamo di fronte non solo ad una sentenza esemplare che riconosce e applica – in virtù della pena richiesta e del lasso temporale in cui si è giunti a sentenza definitiva – quel fondamentale principio della “certezza della pena” ma anche della ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 della nostra Carta Costituzionale, dall’altro lato tuttavia ci lascia se così possiamo dire straniti. Forse per la prima volta, ci troviamo in presenza di un accordo di scambio elettorale politico – mafioso tra una compagine mafiosa e il candidato, di cui quest’ultimo, però, non ne era a conoscenza. Proprio così: ne è sorta una verità processuale ove la consorteria ha posto in essere le condotte predette senza il fine di avere un utile tornaconto poiché il candidato per il quale chiedevano soldi e voti era ignaro di tutto quanto stesse accadendo attorno a lui.
Vorrei concludere, in merito, richiamando un pensiero di uno dei più “Grandi Magistrati” che l’Italia ha potuto vantare e tuttora vanta, Paolo Borsellino ; ossia: << Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo>>.
E in questo caso, possiamo dire che accordo non vi fu!