Il Keynes italiano


In molti ci chiedono chi era questo comunista che ho evocato in un mio precedente editoriale e che ha collaborato così strettamente con il fascismo e con il suo capo.
I fatti sono molto complessi; ne racconteremo una piccola parte. Nel 1887 a Caserta nasce da un tipografo socialista (il socialismo era la sinistra -spesso estrema- dell’epoca) un bimbo che portò il nome di Alberto Beneduce che, divenuto socialista anch’esso, collaborò con le sinistre ufficiali di allora meritandosi notevole stima. Diventa così deputato e poi ministro del lavoro nel governo Bonomi (di sinistra). Fu massone di altissimo livello. Era talmente invasato delle idee socialiste da attribuire a tre delle sue quattro figlie con nomi quali: “rivoluzione proletaria”, “idea nuova socialista” e “Italia libera” che sono inequivocabilmente di ispirazione ideologica. Quindi, giornalisticamente, lo chiamiamo comunista.
La sua idea era quella di far entrare lo stato nell’economia sfruttando il percorso finanziario inventando una persona giuridica a metà strada tra pubblico e privato che chiamò “ente”; così, mettendo i soldi o la garanzia statale lo stato controllava (di fatto nazionalizzandole) le società in crisi senza mai entrare direttamente nella loro gestione che rimaneva ispirata a criteri privatistici. Altri, i cittadini, dovevano produrre, mentre lo stato avrebbe controllato.
Questa strategia piacque subito al Duce e, complice la debolezza del capitalismo italiano specie in quel periodo terribile e specie per quel che riguarda la finanza, i due collaborano strettamente per il risanamento, secondo questi criteri, di molte aziende italiane. Tra le tantissime operazioni realizzate per tale scopo crearono l’Iri come contenitore delle imprese nazionalizzate.  Beninteso, altri personaggi ugualmente autorevoli e di altra estrazione collaboravano con il governo fascista, ma questa identità di vedute nella invasione dell’economia da parte dello stato sarà poi destinata a durare nel tempo e coinvolgere -convincendoli- molti altri politici nei decenni successivi. Il Duce dopo al creazione dell’Iri (che la leggenda dice che fu interamente opera di Beneduce e il capo del governo fascista fu chiamato solo a firmare) lasciò che questo suo consigliere-amico divenisse presidente o amministratore di quasi tutte le maggiori imprese pubbliche italiane divenendo uno dei più potenti del ventennio.
Come si vede questa dottrina è qualcosa di molto simile a quello che oggi si chiama Keynesianesimo cui sono ancora affezionati tutti quelli di sinistra e moltissimi di destra; quando qualcosa non funziona in una impresa ancor oggi tutti spingono per la sua “nazionalizzazione” sulle orme di quanto inventato nel ventennio.
C’è moltissimo altro da dire e di ancora molto più importante che non questi pochi e sommari cenni storici, ma lo faremo in altro intervento, qui sottolineiamo la convergenza duratura, quasi identità, tra i due uomini politici (e delle ideologie che li animavano) di quell’epoca. Convergenza che dura ancora oggi e dalla quale non sembra possibile uscirsene.
È altresì evidente che dopo la fine del fascismo non solo non si è pensato di tornare indietro ri-liberalizzando l’economia come era previsto originariamente, ma lo Stato si è ulteriormente allargato cercando di invadere anche lo spazio delle piccole imprese che oggi sono strettamente presidiate dalla burocrazia statale esosa e paralizzante come si conviene ad ogni burocrazia del mondo.
“tutto nello stato, nulla contro lo stato, niente fuori dallo stato” (Mussolini 28 ottobre 1925 Milano) che era la sostanza della ideologia fascista perseguita nel ventennio, oggi è ulteriormente rafforzata tanto che sembra essere vicina a realizzarsi; specie, aggiungiamo noi, se si abolisse il contante. Ma questa è altra storia.

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