Una grande opportunitàperi assottigliare il gap tecnologico in un organico docenti estremamente anziano, un’occasione per intraprendere il percorso di digitalizzazione della scuola, una nuova modalità didattica che – perché no? – potrà tornare utile anche in tempi normali.
La didattica a distanza in questo anno e mezzo di pandemia è stata accompagnata da un serie di definizioni, di slogan, persino di buoni auspici; tutto per provare a mascherarne difficoltà e controsensi. Però il secondo esame di Stato consecutivo svolto in modalità “semplificata”, orfano degli scritti e con un percorso orale di certo tutto meno che a ostacoli, confermano che la scuola in questa modalità ha qualcosa che non funziona.
Beninteso, a scanso di equivoci, alla Dad dobbiamo essere grati; senza di essa per un anno e mezzo sarebbe stato impossibile fare scuola, e questo nuovo sistema didattico in qualche modo ci ha permesso di portare in salvo la nave.
Se il disastro del Covid-19 si fosse verificato appena 10/15 anni fa, quando il “digital divide” era molto più profondo di oggi (e comunque i numeri restano spaventosamente alti) e la tecnologia molto meno raffinata, avremmo praticamente saltato due anni di scuola, oppure ci saremmo ammalati tutti indistintamente. Una scelta non scelta, a ben guardare.
Eppure, lo ripeto, la Dad ha qualcosa che non va. Innanzitutto, assistere al “passaggio di stato” della scuola, da solida ad aeriforme, è stato un brutto colpo. Sì, è vero, nel 2020/2021 abbiamo avuto l’esperienza dell’anno passato a farci da guida, però non è mai la stessa cosa. Mettiamo tra parentesi – come se fosse possibile – il fatto che non tutti gli studenti hanno la stessa disponibilità di strumenti digitali e di connessione internet, l’idea di dover ascoltare, apprendere e dimostrare di aver appreso attraverso il filtro di un cyborg è un’esperienza alienante, a cui non ci si abitua mai. Per un lungo anno scolastico la battaglia per fare accendere le videocamere agli studenti mi è parsa simile a quella del Don Quijote contro i mulini a vento. Ma pazienza… Per loro, i ragazzi, è stato certamente più difficile.
In un anno scolastico folle, schizofrenico, contraddistinto da aperture a singhiozzo e dalla delirante opzione della didattica “a scelta” da parte delle famiglie pugliesi, per un periodo di tre settimane a febbraio sono stato in classe con un minimo di due a un massimo di quattro alunni in presenza e tutti gli altri a casa. Una situazione bipolare, quella della Didattica digitale integrata, che però – devo ammetterlo – ha avuto il suo fascino. Vedere gli studenti e le studentesse, finalmente, che utilizzano lo studio di Marx, Nietzsche, del fascismo e delle guerre mondiali per confrontarsi con me e tra loro, pur con di mezzo il filtro del mio computer sulla cattedra, mi ha fatto apprezzare quella normalità perduta. Un prezzo alto da pagare, non solo per noi docenti ma soprattutto per i ragazzi e le ragazze, privati a un passo dal momento più importante della loro carriera scolastica del piacere del dibattito, del confronto, dello scontro con i professori e con i loro compagni.
A tutte le classi a cui ho il piacere di insegnare ripeto una mia convinzione come un ritornello: probabilmente loro imparano qualcosa da me, sicuramente io imparo tantissimo da loro. E quest’anno i maturandi non hanno fatto lezione solo a me, ma un po’ a tutti: sono accorsi in massa a vaccinarsi contro il Covid-19, ansiosi di vivere il momento dell’esame e l’estate al massimo della normalità concessaci dalla situazione attuale. Uno schiaffo morale sonoro e doloroso agli adulti scettici, ai no vax, addirittura ai medici che “Sì ma i vaccini non sono sicuri”. Baggianate. Impariamo tutti dalla gioventù.
Oggi sono iniziati i miei esami di Stato da docente, il momento della “maturità” per i ragazzi della mia quinta di liceo scientifico. A loro in Covid ha tolto anche l’ebrezza dell’ansia prima degli scritti, la tachicardia dell’orale a luglio inoltrato, la possibilità di rifarsi se le cose fossero andare male nella prima fase. Adesso è tutto “one shot, one kill”, un solo colpo in canna da sparare per fare centro: un elaborato sulle discipline d’indirizzo, un testo di letteratura da commentare, un percorso interdisciplinare incardinato su un tema specifico (ma anche abbastanza “largo”), un racconto dell’esperienza di Pcto, il curriculum dello studente. Questo è il loro esame, quello che li ha spaventati ed eccitati per un anno intero. Meglio? Sì, perché “almeno te lo levi subito”, dice qualcuno. Peggio? Sì, perché “Se sbagli sei fritto”, dice qualcun altro. Ogni medaglia ha il suo rovescio.
Ma una cosa mi ha colpito più di tutte. Il 28 ottobre 2020, al termine dell’ultima lezione in presenza, una studentessa, lasciando penzolare sconsolata le braccia lungo i fianchi, mi mostrava tutto il suo disappunto, anche la sua paura, per il ritorno in Dad. Oggi per quella studentessa è stato il giorno della “maturità”: ha fatto un bellissimo esame, attraversato da contenuti, capacità critica e una bella scarica di umana emozione che tanto le era mancata, ci era mancata. Oggi quella ragazza e i suoi altri quattro compagni (tutti bravissimi, lo dico con non poco orgoglio) al termine dell’esame hanno avuto la consapevolezza di essere usciti da scuola migliori di come vi erano entrati. Se non è maturità questa… Bravi.