Le dovute celebrazioni dell’anniversario della strage mafiosa di via D’Amelio, nella quale il 19 luglio del 1992 perirono il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Walter Eddie Cosina, non dovrebbero risolversi, come troppo spesso avviene, nella trita e ritrita sfilata delle alte cariche dello Stato, che con esercizio di retorica rivendicano una continuità con chi ha pagato con la vita la propria lotta contro la mafia.
L’Italia tutta dovrebbe ricordare, insieme ai suoi caduti, tutto l’iter che portò a quei morti, ostacolati in ogni modo nello svolgimento delle proprie sacrosante funzioni. C’è un preciso momento in cui, però, la storia di questo Paese avrebbe potuto cambiare. In quell’istante la vita di Paolo Borsellino avrebbe potuto essere salvata e, forse, anche quella del suo collega Giovanni Falcone, caduto nel massacro di Capaci, sempre ad opera dell’organizzazione criminale siciliana, il 25 maggio 1992.
Qualche giorno prima della morte di quest’ultimo, infatti, il Parlamento italiano era riunito in seduta plenaria, dal 13 maggio, per scegliere il nome del Presidente della Repubblica chiamato a succedere al dimissionario Francesco Cossiga.
Dopo una decina di scrutini a vuoto, il 19 maggio del 1992, ad appena 6 giorni dalla carneficina di Capaci, ed esattamente due mesi prima della strage di via D’Amelio, l’allora segretario del Movimento Sociale Italiano Gianfranco Fini, ben lungi dalla svolta di Fiuggi di tre anni dopo, propose all’Assemblea di votare proprio Paolo Borsellino, in gioventù militante del Fuan, organizzazione universitaria missina, per la carica oggi occupata da Mattarella. Non ci fu il necessario riscontro, se è vero che a scrivere il nome del magistrato, su 967 onorevoli presenti, furono solo i 47 del partito che fu di Almirante.
Un’occasione persa, certamente. Perché un centinaio di ore dopo quella scelta dei parlamentari, arrivò a sconvolgere tutti la notizia della dipartita di Falcone, ucciso insieme alla moglie Francesca Morvillo ed a tre agenti di scorta, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Il Parlamento, allora, dopo aver appreso dell’attentato, scelse la via del compromesso tra le forze politiche, eleggendo Presidente della Repubblica a larga maggioranza il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, allora Presidente della Camera dei Deputati.
Borsellino restò quindi un semplice magistrato, e non sapremo mai se una sua eventuale elezione alla massima carica del Paese avrebbe fermato le mani dei suoi assassini, e di quelli del giudice Falcone. Questo dubbio, però, rimarrà, nella storia d’Italia. Perché, forse, quel nemico feroce avrebbe potuto essere fermato, se la politica avesse assunto, al momento opportuno, decisioni diverse.