«Chiudiamo tutto, non solo i locali della ristorazione»

Rabbia, sconforto ma soprattutto tanta delusione. Sono questi gli stati d’animo che da ieri serpeggiano più forti che mai tra i ristoratori baresi nei confronti dei governanti nazionali e regionali. Non importa se si è baristi, pizzaioli, chef, cuochi o camerieri sono tutti nella stessa ‘barca’, tutti con un piede nell’incertezza e l’altro nella possibilità, sempre più prossima, di trovarsi senza un lavoro.

“Noi commercianti dovremmo essere gli strumenti per garantire sicurezza, non essere condannati” afferma con forza Paolo Putignano, 41 anni, titolare della braceria “Fat Smoke” in viale Pasteur, sentito da noi per capire cosa i ristoratori baresi pensano della nuovo Dpcm in vigore dal 6 novembre 2020. Le sue parole sono sferzate sulla pelle, pugnalate al cuore, di chi si appresta a vivere un nuovo duro colpo economico nel mondo del lavoro e dell’imprenditoria locale. Nella giornata prima delle nuove imposizioni di chiusura, sconforto e rabbia sono le compagne più certe a fronte di saracinesche abbassate alle ore 18 e con clienti che hanno disdetto la prenotazione al pranzo. «Dieci clienti hanno disdetto ieri sera – ci racconta al telefono Paolo Putignano – Alle 13.30 avevo solo tre clienti al tavolo. Per me è una beffa. Non possiamo essere trattati tutti sullo stesso piano perché non siamo uguali. Noi del ristorante non possiamo pensare, anche se mi sto organizzando per farlo, all’asporto e alle consegne a domicilio. Anche perché non si organizza in un giorno. La braceria, di cui mi occupo, va preparata, servita e mangiata sul posto. Consegnarla a domicilio significa far perdere al piatto qualità. Un piatto da ristorante piuttosto che un pezzo di carne particolarmente importante non può essere consegnato a casa in un ‘cartone’. Perderà di gusto e di cottura come richiede un mio piatto».

Paolo Putignano non ha famiglia, ci racconta. Ha una piccola ‘fortuna’, quella di avere un altro lavoro oltre quello della piccola impresa della braceria. Prima ancora un’attività estiva che ad aprile del 2019 ha dovuto sospendere. L’attività di ristorazione l’ha invece aperta ad ottobre 2019 ma in questo anno, da piccolo imprenditore è stato duramente colpito dal primo lockdown, da imposizioni di legge come le casse collegate direttamente all’Agenzia dell’Entrate e il pagamento dei pos con delle tassazioni “pazzesche sulle transazioni” tanto da sentirsi in una “categoria martoriata”.

La prima chiusura antipandemia da coronavirus non gli ha consentito, come per altri colleghi, di ricevere aiuti da parte dello Stato perché il parametro utilizzato nel decreto ristori era quello di avere continuità lavorativa. «Per cui chi come me, anche solo per una ristrutturazione o motivi personali, ha dovuto chiudere e ha visto calare il fatturato se non addirittura azzerato, non è rientrato nel decreto e non ha avuto aiuti economici. Facciamo parte di una piccola percentuale, ma come tutti gli altri siamo danneggiati comunque e credo che avremmo diritto pure noi ad un sostegno economico da parte del Governo».

Ora la seconda chiusura che Putignano definisce “presa in giro” perché, spiega, «ci hanno primo detto di dotarci dei dispositivi di protezione e imposto la sanificazione, promettendo un contributo pari al 50% come sostegno alle spese per la sanificazione dei locali e che, a distanza di qualche mese, per motivi ignoti, è stato diminuito all’8%. Mentre per i rimborsi promessi sono previsti solo all’atto della dichiarazione dei redditi come credito d’imposta sulle tasse. Sbaglio a pensare che per generare tasse ho bisogno di lavorare e di guadagnare? Se non lavoro, non guadagno, non genero tasse per cui le agevolazioni fiscali io non le avrò mai. Abbiamo bisogno di liquidità. Se mi dicono di poter lavorare a determinate condizioni, così come è avvenuto, e lo faccio, la promessa va mantenuta. Non siamo la ‘nicchia’ sacrificabile. Siamo una fetta importante del pil, dell’economia locale e nazionale. Diamo da lavorare a tanta gente e abbiamo il diritto di essere rispettati non presi in giro».

E già ci sono pure i dipendenti. Putignano ne ha sei. Tutti con famiglia, alcuni persino con figli. E’ per loro che proverà ad andare avanti in questa seconda chiusura forzata oltre che per sé stesso perché crede nell’impresa che ha creato. Ama il suo lavoro alla braceria. Per cui sta pensando di provare con il domicilio e l’asporto ma non è convinto di quello che sta facendo. Lo fa per continuare a non rimetterci, per salvare il salvabile. Se nel primo lockdown l’apertura era rinviata di settimana in settimana e poi di mese in mese, ora la paura è tanta anche perché sa a cosa va incontro.

«La frase di Conte: “Vi do’ un giorno in più per organizzarvi e poter smaltire le scorte” non ha senso – asserisce – Non ha idea di che cosa c’è dietro la nostra attività. Un pranzo di qualità non si organizza in cinque minuti. C’è un lavoro dietro di più di un giorno. Si parte dagli ordini per l’acquisto dei prodotti e poi ci sono le preparazioni curate e programmate». Ed aggiunge che nel primo lockdown, con la chiusura di tre mesi ha comunque avuto spese tra affitto da pagare per il locale e l’energia elettrica per due frigoriferi rimasti accesi in cui ha conservato prodotti che ha dovuto congelare. Sa già che adesso accadrà la stessa cosa. Così come sa che nessuno gli darà una mano.

Come tanti colleghi del mondo della ristorazione vorrebbe «capire le motivazioni e i criteri di queste decisioni. Se fossero accettabili, cosa che non sono, forse potremmo anche accettarlo più volentieri. Non voglio criticare, ma giudicare su quanto c’è di concreto. Al momento mi sembra che l’unica cosa certa è che ieri, da un giorno all’altro, si è deciso di chiudere quasi tutto. Un “mezzo lockdown”, lo ha definito qualcuno, ma per chi come me deve chiudere è una chiusura piena e reale, che tocchiamo con mano. Dobbiamo continuare a pagare i dipendenti, pagare le utenze e soprattutto gli affitti Personalmente penso che sarebbe più giusto e corretto chiudere tutto, ma proprio tutto, per due settimane. Si diminuirebbero i tempi e sicuramente i contagi verrebbero circoscritti a poche persone e sarebbe tutto più facilmente controllabile e gestibile. Il sacrificio se deve esserci che sia per tutti, paritario. Più intenso ma più breve. Prolungare le aperture solo ad alcuni fa continuare a circolare il virus e così non si risolve niente se non il prolungamento della sofferenza di chi già no ce la fa più».

E’ questo il ‘grido’ accorato di un ristoratore ma siamo certi che il pensiero sia univoco per tutta la categoria. Perché sono tanti nella sua stessa situazione. Tanti che già hanno dovuto affrontare difficoltà non da poco da marzo a maggio, con una piccola boccata d’ossigeno da giugno ad ottobre e che ora sembra sia nuovamente ‘soffocata’. Non chiedono nulla di più se non di essere ascoltati, in un incontro a tavolino dove poter dire la loro e far capire ai governanti che non è chiudendo i loro locali che si risolverà la pandemia. Bisogna pensare ad altro. A cominciare da serrati controlli.

Anna Caiati

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