Da tempo mi chiedevo come mai in tempi di mondializzazione esistessero ancora i campionati nazionali; nessuno aveva pensato di creare un campionato che superasse le frontiere e che fosse europeo. Ci ha pensato una banca mondialista assieme a delle squadre super blasonate che hanno tifosi sparsi un pò dovunque e hanno inventato la SuperLega.
L’idea di organizzare un super campionato esclusivo per le squadre pro tempore più in vista delle varie nazioni ha indignato anche i più fedeli europeisti e ha scoperto un vaso di pandora incredibile. Si è toccato con mano quanto già si intuiva sullo stato comatoso delle finanze di queste società pluri premiate. Complice il covid e i relativi divieti, gli incassi delle società calcistiche sono crollati quasi che queste mega società fossero simili alla pizzeria sotto casa con la differenza che loro sono troppo grandi per fallire e quindi la finanza internazionale è accorsa al loro capezzale per fornire i soldi necessari. A condizione, ovviamente, di restituirli debitamente aumentati; ma chi paga? Si potrebbero vendere i giocatori o pagarli di meno; impossibile: così si scoprirebbe che quegli squadroni vincono solo perché possono pagare le super star del pallone a suon di milioni.
Quindi si architetta un sistema per il quale staccandosi dai campionati nazionali ci si assicurano fette di mercato oggi condivise con tutti gli altri. Poco importa loro se questo condannerà tutti gli altri alle angustie di bilanci ancora più miseri degli attuali e a disporre di calciatori meno attrattivi di pubblico e di diritti televisivi. L’accentramento degli ascolti in questo nuovo campionato decreterà ulteriore accentramento di potere in quelli che vi stanno dentro e ulteriore impoverimento di tutti gli altri, un po’ come le multinazionali della distribuzione che quando si insediano in una città fanno deserto economico attorno a loro. È lo stesso schema dell’euro che arricchisce i ricchi ed impoverisce i poveri. Basta una parola: mondializzazione. E guarda caso una banca internazionale è stata pronta a sposare questa promettente strada; qualcuno dirà che lo sport centra poco in queste vicende, altri diranno che è la legge del più forte che la spunta sempre. Su tutto aleggia il “too big to fail” –“troppo grandi per fallire” già citato- che il primo Obama all’inizio della sua esperienza presidenziale teorizzò come regola aurea per salvare i ricchissimi dalla bancarotta in danno del contribuente. Si dirà che è la solita sinistra mondialista così comprensiva per i potenti veri (come lo sono le super banche) che guarda con sospetto questi nazionalismi o localismi straccioni che sopravvivono con la scusa del calcio giocato con i nomi delle singole città…
Noi riscontriamo che, pur straccioni e con bilanci in predissesto, quelle squadre con i nomi di città e nazioni, giocano appassionatamente al calcio e i loro tifosi, -che bizzarri!- ne vanno orgogliosi. E questo è un fatto incontrovertibile.